Dopo essere stata pioniera nel paranormal e nel paranormal brillante,
Delos Books si lancia in un nuovo genere ancora poco conosciuto nelle
librerie italiane: il Medical Thriller.
Esce questo mese La seconda opinione (The Second Opinion,
2009) di Michael S. Palmer, uno dei principali autori del genere,
tradotto in 28 lingue e dai cui romanzi sono stati tratti film per il
cinema.
Titolo: La seconda opinione
Autore: Michael S. Palmer
Editore: Delos Books
Collana: Medical Thriller
Pagine: 300
Prezzo: 16,90
«Un medical thriller da
batticuore… gratificante, sapientemente percorso dalla suspense necessaria a
tenere i lettori incollati alle pagine» Boston Globe
Descrizione:
La
seconda opinione è una full immersion nell’universo dei camici bianchi, dove
l’autore, essendo un medico, gioca in casa e sfodera tutte le sue conoscenze
professionali.
Michael
Palmer con questo libro ha costruito il gioco del gatto con il topo, nel quale
una donna deve fronteggiare un complotto fra medici per smascherare una pratica
terribile che tocca da vicino chiunque abbia mai affrontato un controllo
medico. Grazie a personaggi accattivanti, colpi di scena e tradimenti che
giungono dove meno uno se li aspetta, La seconda opinione vi porterà a mettere
in discussione… tutto.
L'autore:
Michael
S. Palmer, nato nel 1942 a
Springfield, Massachusetts, è autore di sedici romanzi di genere medico
ospedaliero. Tutte le sue opere sono state in testa alla classifiche dei libri
più venduti del New York Times, di Publisher Weekly, del Wall Street Journal e
di Usa Today. Un successo che è stato poi confermato dal fatto che i suoi libri
sono stati tradotti in trentacinque lingue.
Oltre
a scrivere, Palmer svolge attività di medico specializzato in medicina interna
negli ospedali Boston City e Massachusetts General.
Ha
lavorato a tempo pieno come medico nei reparti pronto soccorso, e ora è
direttore associato del programma medico della Massachusetts Medical Society.
“
Più contorto della psiche di un
sociopatico…originale ed efficace, una lettura piacevole ed accattivante”.
California Literary Review
Hanno detto di questo libro:
“Un medical thriller da
batticuore….gratificante, sapientemente percorso dalla suspense necessaria a
tenere i lettori incollati alle pagine”
Boston Globe
“Il romanzo non è solamente un thriller,
ma anche una finestra spalancata sui doni unici della protagonista e sulla sua
determinazione a comunicare con il padre
in coma, a dispetto di ogni schiacciante avversità. Un altro centro da parte di
un bravo autore che non sbaglia mai.
Booklist
“ Uno splendido romanzo” Globe and Mail (Canada)
Un assaggio (per gentile concessione dell'editore)
Prologo
– Purtroppo devo darti una brutta notizia.
Hayley Long, che aveva compiuto i cinquantun anni da appena due
settimane, udì quelle parole come se il suo medico avesse parlato attraverso un
lungo tubo d’acciaio.
Purtroppo devo darti una
brutta notizia...
Per un breve istante si chiese quante migliaia di persone al giorno
sentissero dire la stessa cosa da un medico; per quanti pazienti a ogni ora, o
forse a ogni minuto, quelle parole rappresentassero un’improvvisa, stridente
svolta nella vita.
Purtroppo...
Stephen Bibby, laureatosi in medicina alla Emory University, era il suo
medico personale da quando un attacco di polmonite l’aveva colpita circa
vent’anni prima. Hayley lo rispettava già solo per il fatto che Bibby conosceva
i propri limiti e non esitava ad alzare il telefono per mandarla da uno
specialista.
Colta da un’ondata di nausea, Hayley ebbe la tentazione di accomiatarsi
per vomitare prima di sapere esattamente cosa dovesse affrontare; invece (senza
molti risultati) cercò di calmarsi con un bel respiro e di mantenere uno
sguardo neutrale.
– È un tumore?
Stentò a credere che fosse stata la sua bocca a pronunciare quelle
parole: i suoi pensieri erano in subbuglio.
Un tumore... Com’è
possibile?... Oddio no.
Inizialmente, avvertendo solo una serie di dolori alla pancia e
flatulenza, non ne aveva nemmeno parlato con il suo assistente di direzione,
poi proprio lui l’aveva convinta a chiamare Bibby. Era tutta colpa sua.
Bibby le aveva fatto fare una risonanza magnetica all’addome.
Tumore.
Le vertigini e la nausea s’intensificarono.
Prima o poi avrebbe dovuto dirlo a David, che non la prendeva per
niente bene quando a lui o a qualcuno di sua conoscenza veniva diagnosticata
una malattia. Ma non subito, non finché non avesse saputo tutti i dettagli. Al
momento David stava realizzando il suo sogno di girare il mondo in barca e, in
seguito alla morte della prima moglie per aneurisma cerebrale, aveva atteso
dieci anni prima di risposarsi.
Adesso, questa notizia.
Gliel’avrebbe detto presto, ma non nell’immediato.
Bibby, gentiluomo del sud che aveva da poco superato i sessant’anni,
lanciò un’occhiata alla porta come nella speranza che un altro medico entrasse
a prendere il suo posto.
– Ho chiesto se è un tumore.
Mordendosi un labbro, il dottore annuì.
– Operabile? – domandò lei. E
dai, Stephen! Dammi una mano!
– Non... non lo so. A quanto pare è partito dal pancreas, l’organo
che...
– So cos’è il pancreas, ogni volta che accendo quella stramaledetta TV
sento Jimmy Carter che parla di tumore
al pancreas. Si è diffuso?
– Sembra avere... intaccato
alcune parti del fegato.
Acceso il computer con un clic del mouse, Bibby lo girò verso di lei.
Anche un bambino sarebbe riuscito a riconoscere il tumore sull’esito della
risonanza, sotto forma di una ripugnante massa bianca che le aveva centrato in
pieno il ventre. Centrato in pieno, come
una pallottola. Ironico che la sua mente avesse completato la frase proprio
così.
Ti prego, fa’ che sia un
brutto sogno. Che sia soltanto un fottuto sogno.
Hayley si sfregò gli occhi come per dare una zampata all’incredulità.
All’età di cinquant’anni aveva tutto quello che potesse desiderare: un marito
stupendo che le voleva bene; i figli di lui che la trattavano come se fosse la
loro madre biologica; soldi e una posizione autorevole, che la maggior parte
della gente avrebbe solo sognato; prospettive future che le permettevano di
assaporare appieno il significato della vita.
E ora questa notizia.
Tumore al pancreas...
Inoperabile... Dio, fa’ che non succeda, pensò disperata Hayley
Long. Fa’ che sia un sogno... nient’altro che un brutto sogno.
Ripresi i sensi gradualmente e a intermittenza, Petros Sperelakis come
prima cosa avvertì il dolore, un sordo pulsare all’altezza dell’inguine e una
specie di bruciore in fondo alla schiena. Tentò allora di muoversi, di cambiare
posizione, ma il suo corpo non reagì.
Per favore, non riesco a
muovermi. Qualcuno mi aiuti, per favore. Sono Sperelakis, il dottor Petros
Sperelakis. Non vedo niente, non posso muovermi.
– Connie, prenditi una pausa: io resto qui ancora un’ora.
– Va bene, grazie. Ascolta, Vernice, una cosa che gradirebbe molto sono
un po’ di manipolazioni articolari alle caviglie e ai polsi.
Connie? Vernice? Riesco a
sentirvi, vi sento! Siete infermiere del Beaumont? Sono io, il dottor
Sperelakis. Che cosa intendete con manipolazioni? Sono paralizzato? Che mi è
successo? Un incidente, un infarto, un tumore? Perché non vedo niente? Perché
non riesco a parlare?
L’uomo che molti consideravano tra gli esperti di medicina diagnostica
più illustri al mondo stentava a interpretare i propri stessi sintomi, e la
difficoltà a seguire un pensiero ben definito era la cosa che lo spaventava di
più in assoluto.
Perché provo tanto dolore?
Qualcuno mi dice per favore cos’è successo? Cosa mi è successo? Lo sento,
Vernice, sento che muovi la mia caviglia. Oh, mio Dio...
Capitolo primo
Contusioni ed escoriazioni
multiple... Bacino fratturato... frattura non scomposta, omero prossimale...
Contusione e lacerazione polmonare in seguito a fratture scomposte posteriori
della settima, ottava e nona costola...
Scandendo mentalmente questa tetra litania, Thea Sperelakis s’avvicinò
alla stanza 4 del reparto di terapia intensiva del Beaumont Clinic.
Frattura lineare trasversale
al cranio... Emorragia intracerebrale estesa... Coma profondo...
Thea esitò, pensando a come avrebbe trovato suo padre, conscia del
fatto che, essendo lei stessa specializzata in medicina interna, le sue
supposizioni sarebbero state poco lontane dalla verità. Secondo il parere della
polizia, riferitole da suo fratello Niko, il veicolo che otto giorni addietro
aveva investito suo padre alle cinque e mezzo di mattina ed era poi fuggito,
andava almeno a una velocità di centodieci chilometri orari. Era un miracolo
che suo padre fosse sopravvissuto all’impatto, nonostante l’avessero
scaraventato a una decina di metri di distanza, ma Thea ricordava che Petros
Sperelakis era sempre stato chiamato dai suoi figli “il Leone”: distante,
potente, e geniale come una specie di re.
Il Leone.
L’assenza dei segni di una frenata suggeriva che il conducente non
avesse neanche visto la sua vittima; il
o la conducente, si corresse Thea,
concentrata sulla massima precisione perfino nel pensiero. La polizia non aveva
una pista da seguire e non c’erano testimoni.
Alcol, ipotizzò. Secondo un articolo di Eileen Posnick, pubblicato
sette anni prima su un numero della Rivista
Americana sull’Abuso di Alcol e Sostanze Stupefacenti, nel 90 percento dei
casi i pirati della strada che causavano incidenti (e venivano infine
arrestati) guidavano in stato di ebbrezza.
Alle sue spalle, Niko si staccò dal gruppo composto dalla gemella
Selene e un trio di dignitari del Beaumont Clinic per prenderla sottobraccio.
Scuro di carnagione e dalle spalle ampie, Niko aveva in comune con suo
padre il naso dai tratti decisi e i perforanti occhi scuri, ma i lineamenti del
suo viso erano in un certo senso più morbidi; a quarant’anni era già professore
associato di chirurgia cardiovascolare a Harvard, un bambino prodigio che aveva
dato diversi contributi significativi nel suo campo.
Ma anche Selene, esotica, elegante e con un’assoluta sicurezza di sé,
aveva raggiunto gli stessi risultati come chirurgo della mano.
– Tutto bene, Thea? – chiese a bassa voce Niko.
Prima di rispondere, Thea analizzò il proprio stato d’animo come le era
stato insegnato: un uomo così pieno di vita come suo padre si ritrovava in coma
profondo e aveva una probabilità dello 0,01 percento di riprendere le funzioni
vitali basilari... almeno secondo lo studio retrospettivo sulle emorragie
traumatiche al mesencefalo pubblicato da Harkinson e altri negli Archivi Americani di Neurologia, volume
117, pagina 158. Una su diecimila, senza contare le costole e le altre
fratture.
Povero papà.
– Tutto bene – rispose.
– Vuoi entrare da sola?
E perché dovrei volerlo?, si chiese lei
scuotendo la testa.
Il coma sarebbe stato meno grave se avesse visto suo padre da sola?
Si strinse nelle spalle come se non facesse differenza, ma ebbe subito
l’impressione di non aver dato una risposta abbastanza soddisfacente.
– Accomodati – disse Niko in un tono che le era familiare. Pur sapendo
che suo fratello le voleva bene, così come Selene, e che da sempre i gemelli la
consideravano strana (anche se non ai livelli
del fratello maggiore, Dimitri), avevano entrambi qualche problema di
atteggiamento, come aveva sottolineato più volte la dottoressa Paige Carpenter,
terapista e mentore di Thea.
Una su diecimila... Povero
papà.
Dopo essersi passata le dita tra i corti capelli castani, Thea fece un
singolo, profondo respiro e varcò la soglia.
Le sue aspettative non furono smentite: il leggendario Petros
Sperelakis, direttore dell’Istituto Sperelakis di Medicina Diagnostica, giaceva
immobile, figura centrale in un quadro di apparecchiature mediche. La sua
infermiera privata in servizio (originaria di Haiti, immaginò Thea) si alzò
dall’altra parte della stanza presentandosi col nome di Vernice.
– Ho sentito molto parlare di lei, dottoressa Thea – esordì. – Spero
che abbia fatto buon viaggio.
– Ho letto un po’ – commentò Thea, stringendo la grande mano liscia di
quella robusta donna.
Ho letto un po’.
Thea sapeva che si trattava di un’affermazione clamorosamente
riduttiva. In venti ore di voli aerei e scali tra la Repubblica Democratica
del Congo e Boston, aveva letto il Don
Chisciotte, la seconda edizione del Manuale
di Agopuntura di Deadman (per la seconda volta), e il Viaggio di un naturalista intorno al mondo di Darwin: in tutto più
di milleseicento pagine.
Avrebbe anticipato il viaggio volentieri, ma era in missione da un
campo profughi all’altro con un team di nutrizionisti, e in mezzo alla foresta
non poteva essere contattata.
– Non ci sono stati cambiamenti – disse Vernice.
– Mi meraviglierei del contrario, vista la gravità del colpo che ha
preso, specialmente alla testa.
Avvicinatasi al letto, Thea controllò istintivamente i monitor e le
infusioni endovenose. Petros giaceva con aria piuttosto pacifica, collegato a
un modernissimo respiratore tramite una sonda e un’incisione alla trachea. Gli
ospedali dei Medici Senza Frontiere a cui Thea era stata assegnata negli ultimi
cinque anni erano ben attrezzati, ma non paragonabili a quel posto.
Il Beaumont, come veniva comunemente chiamato l’istituto, consisteva in
diversi edifici che ricoprivano una zona della grandezza di una piccola
università; al Boston Metropolitan Hospital di un tempo erano state aggiunte
due dozzine di strutture molto diverse per stile architettonico, collegate tra
loro sia da vialetti alberati, sia da un dedalo di gallerie sotterranee, alcune
con scale mobili, altre con pareti dalle piastrelle opache e risalenti alle
origini dell’ospedale a metà del diciannovesimo secolo, le quali portavano
verso trombe di scale che scendevano di due o tre umidi piani.
Saturazione d’ossigeno... pressione arteriosa... pressione del liquido
cerebrospinale... pressione venosa centrale... drenaggio dell’urina... tubo di
drenaggio toracico... battito cardiaco e tracciato dell’elettrocardiogramma...
Thea assimilò queste complesse informazioni elaborandole come se le
leggesse da un sillabario di prima elementare.
Stabile. Tutto tranquillo e stabile. Al momento, Petros Sperelakis
lottava strenuamente per la sua vita a livello cellulare e perfino
subcellulare: l’occhio della mente della sua discendente più giovane, da lui
maledetta quando aveva preso la decisione di rinunciare alla medicina
accademica per “sprecare il suo talento” nei Paesi del terzo mondo, vide con
chiarezza quel conflitto interiore.
Nella migliore delle ipotesi, sarebbero passate settimane prima che suo
padre riprendesse conoscenza, e nel frattempo il suo corpo avrebbe dovuto
superare una miriade di infezioni, coaguli di sangue, calcoli renali, embolie,
tumefazioni cerebrali, squilibri chimici, occlusioni intestinali e problemi al
cuore. Almeno in quell’ambiente, tra tutte quelle attrezzature, riusciva ancora
a lottare, ma per come lo conosceva Thea, suo padre non si sarebbe sforzato più
di tanto per evitare il peggio, se fosse dipeso da lui.
Gli prese la mano e per un momento la tenne stretta. Sebbene fossero
trascorsi solo otto giorni dall’incidente, la sua massa muscolare cominciava
già a ridursi. Oltre alla tracheotomia, aveva un sondino gastrico per il cibo,
due endovene, un catetere urinario il cui contenuto defluiva rapidamente in una
sacca, e un manometro che misurava la pressione intracranica e del ventricolo
del cervello contenente il fluido spinale. Le sue palpebre chiuse erano state
fissate con il nastrocarta per impedire alle cornee di seccarsi, mentre delle
stecche erano assicurate ai polsi e alle caviglie per evitare una contrattura
delle giunture, nella remota ipotesi che riprendessero la funzionalità.
Petros Sperelakis, un’icona abbattuta da qualcuno annebbiato
dall’alcol, o abbastanza cosciente da fuggire per non farsi beccare. Thea non
aveva mai visto neanche lontanamente suo padre vulnerabile, ma in quel momento
le sembrava fragile e pateticamente infantile.
Pur sapendo che avrebbe dovuto fermarsi più a lungo, cosa che aveva in
mente per i giorni a venire, non aveva quasi mai chiuso occhio durante il
viaggio e la stanchezza per il volo cominciava a prendere il sopravvento.
Quindici minuti, decise: altri quindici minuti sarebbero bastati,
indipendentemente dalle idee altrui.
Niko l’aveva invitata a casa sua, ma per quanto li amasse, tre bambini
sotto i dieci anni avrebbero creato più trambusto di quanto ne potesse
sopportare. Selene invece viveva con la sua compagna, una banchiera o comunque
una donna d’affari, in un condominio di lusso a molti piani vicino al porto.
L’unica ovvia possibilità era la grande casa di Wellesley dove lei e
gli altri erano cresciuti, e dove Petros viveva col fantasma della moglie e con
Dimitri, trasferitosi ormai da molti anni nella rimessa (trasformata in
abitazione) con i computer, i monitor, la radio a onde corte, il telescopio, i
vari congegni, la libreria di manga, romanzi a fumetti e manuali di Dungeons
and Dragons, e la vasta collezione di cimeli della Coca-Cola e di Star Wars.
Rivedere suo fratello sarebbe stata una buona cosa per varie ragioni, soprattutto
perché, tra tutti i parenti, era quello con cui aveva il rapporto più stretto,
ed era una specie di specchio di ciò che sarebbe diventata lei stessa senza la
fortuna di una diagnosi precoce, l’intervento di qualcuno, e una considerevole
terapia cognitivo-comportamentale.
Thea ricordava ancora quand’era piccola e la sua famiglia parlava dello
strano comportamento di Dimitri e della sua tendenza all’isolamento: nessun
amico, strani stati d’animo, affermazioni spesso fuori luogo. Età fisica,
dodici anni più di lei; età emotiva, incostante e imprevedibile.
– Dimitri, questo è Robert,
il tuo nuovo insegnante di pianoforte.
– Oh, ciao. Quand’è l’ultima
volta che sei andato dal dentista?
Thea non avrebbe mai saputo tutto quello che in famiglia si diceva su
di lei, ma era certa che le scelte fatte con l’aiuto della dottoressa Carpenter
fossero state quelle giuste per se stessa e per i suoi pazienti. Stare lontana
dalle complicazioni non solo portava alla felicità, ma costituiva una ricetta
per la sua sopravvivenza: questo aveva imparato. E se c’era una singola parola
che andava d’accordo con Petros Sperelakis, era proprio complicazione.
Nato e cresciuto ad Atene fino alla tarda adolescenza, Petros aveva un
modo di pensare e una filosofia tipici della madrepatria, quelli di un
brillante medico tanto dedito alla sua vocazione quanto severo con la sua
famiglia.
Come armi impugnava le punizioni verbali e le alte aspettative, gli
unici modi tra l’altro in cui sapeva dimostrare amore. Sua moglie Eleni si era
ribellata contro di lui in un solo modo: continuando con le sigarette
nonostante i suoi perentori divieti. Il tumore ai polmoni che si era
impossessato di lei non l’aveva mai ammorbidito e, ogni volta che Petros la
nominava, invocava impotente: – Se solo mi avesse ascoltato... Se solo mi
avesse ascoltato.
Thea allungò una mano in mezzo alle cannule per togliere alcuni ciuffi
bagnati di capelli grigi dalla fronte di suo padre. Nel vederlo in quelle
condizioni provava una tristezza che derivava sì dalle conoscenze mediche, ma
era anche profondamente radicata e viscerale, e sapeva che la condividevano
anche i suoi due fratelli “neurotipici”.
Petros non aveva mai capito la sua timidezza, né le violente reazioni
che le provocavano certi rumori (specialmente gli aspirapolvere e i phon per
capelli), o alcuni cibi, o particolari tessuti. Quando lei aveva dodici anni,
assillato da Eleni per la somiglianza sempre più marcata di Thea con Dimitri,
data dalla mancanza di amici e dalle sue ossessioni patologiche (soprattutto verso
i libri di ogni tipo), Petros le aveva permesso di portarla dalla dottoressa
Carpenter, che aveva associato i sintomi alla cosiddetta sindrome di Asperger.
Per Petros non era stato facile sottoporre la figlia più piccola a una
terapia e test neuropsichiatrici: nel suo vocabolario non esistevano parole
come non posso o concetti come
psicoterapia. Se come medico diagnostico aveva qualche debolezza, infatti,
riguardava le malattie psicosomatiche e il collegamento tra mente e corpo.
– Credo che stia comodo così – azzardò Vernice dall’altro lato del
letto.
– Sicuramente – rispose Thea, riuscendo in qualche modo a deglutire il
fatto che, se Petros aveva sensibilità, di certo non stava per niente comodo, e
se non ce l’aveva era una tirata per i capelli associare quella posizione alla
comodità.
– Suo fratello Dimitri ha detto che, se vostro padre è davvero in un
coma così profondo, non aveva senso chiedersi se stesse comodo o no.
– A volte Dimitri parla solo per scioccare la gente – replicò lei, e
mentalmente sorrise per tutte le volte in cui il suo eccentrico fratello si era
comportato in quel modo. Vernice aveva reagito con relativa facilità.
– Be’ – continuò l’infermiera, – deve almeno confortarci sapere che il
dottor S. viene curato nell’ospedale migliore del mondo.
– Già. – Thea si domandò come avessero fatto Vernice, e il Newsweek, e l’incalcolabile numero di
persone che avevano quell’opinione del Beaumont, a dare lo stesso giudizio di
una cosa così impossibile da quantificare.
Quasi contemporaneamente, al Centro Tumori Susan and Clyde Terry, nella
zona più lontana dell’area occupata dal cosiddetto ospedale migliore del mondo,
un’infermiera eseguiva il proprio compito iniettando un recentissimo farmaco
sperimentale nel foro centrale di un’endovena. Il paziente in questione era un
uomo tarchiato di nome Jeffrey Fagone.
L’accumulo di ricchezza da parte di Fagone, magnate nel campo degli
autotrasporti originario della Pennsylvania occidentale, era stato interrotto
da un’anomala forma di tumore al sangue conosciuta col nome di
macroglobulinemia di Waldenstrom. Come sintomo aveva avvertito dolore in fondo
alla schiena: il suo medico di base gli aveva consigliato allora un esperto del
Beaumont, dove Fagone s’era presentato tutti gli anni per trascorrere i suoi cinque
giorni di relax alla Spa e fare i controlli medici; adesso rientrava in un
protocollo di trattamento di ultima generazione, di quelli per cui i dottori
del Beaumont erano famosi.
Fagone andava al Centro Terry ogni settimana con il jet aziendale Gulfstream
G500. Al momento era il suo terzo trattamento in una serie di dieci, i primi
due non avevano prodotto risultati.
Quell’iniezione, però, era qualcosa di diverso.
La fiala contenente la medicina era stata abilmente sostituita durante
il tragitto tra l’istituto di ricerca e il centro tumori. Quella nuova, con lo
stesso numero identificativo, conteneva abbastanza veleno d’ape concentrato da
trasformare l’allergia alle punture delle api di Fagone (debitamente annotata
sulla sua cartella clinica) in shock anafilattico, un grave caso di emergenza,
paragonabile ai fuochi d’artificio del Quattro Luglio nel parco di Charles
River Esplanade.
L’eruzione non impiegò molto a manifestarsi. Già le prime molecole del
veleno attivarono i mastociti in tutto il corpo di Fagone, i quali rilasciarono
grandi quantità di istamina e di altri neurotrasmettitori. Più veleno, più
mastociti, più istamina. In meno di un minuto, la lingua color rosso cardinale
di Fagone si gonfiò fino a raggiungere le dimensioni di una palla da golf e le
labbra diventarono simili a salsicce viola. I muscoli delle pareti dei bronchi
cominciarono a subire violenti spasimi, e pochi istanti dopo, la laringe,
anch’essa presa dagli spasimi, si chiuse completamente. L’intero corpo di
Fagone assunse un colorito scarlatto e le sue dita diventarono delle mere
protuberanze attaccate a due mani grandi come palle da softball.
Il team del centro Terry si mobilitò in fretta issando su una barella
l’ex autotrasportatore di centoventi chili e mettendolo in un’area con una
parete divisoria tra lui e gli altri pazienti.
Ma ormai remavano verso l’equivalente medico di uno tsunami.
Sebbene il foro dell’endovena fosse disponibile, l’oncologa in
servizio, una giovane donna assai più minuta di Fagone, non era abbastanza esperta
per un’emergenza di quella portata. Quando gli iniettò le medicine giuste, la
pressione sanguigna del malato segnava già lo zero da quasi tre minuti.
Rinunciò a infilare un tubetto respiratorio endotracheale tra le corde vocali
deformate e molto gonfie, cominciando goffamente a praticare la sua prima
tracheotomia d’emergenza, in attesa che l’otorinolaringoiatra rispondesse al
cercapersone, quando la respirazione s’era interrotta da quattro minuti. Non
appena ebbe iniziato a incidere la gola gonfissima del paziente con un bisturi,
il suo cuore si arrestò. Sangue scuro fuoriuscì dalla lacerazione aperta.
Frustrata e completamente demoralizzata, l’oncologa sospese i tentativi
di rianimazione dopo dieci minuti. Ancora non era stata creata un’appropriata via
respiratoria.
Jeffrey Fagone, che anni prima era scampato a due tentati omicidi
mentre rincorreva la ricchezza e il potere nella Teamsters Union, stavolta non
la fece franca.
A differenza degli altri attentati, però, in questo caso non si poté
sospettare qualcosa di strano: Fagone fu ucciso da una fatale reazione
allergica al farmaco #BW1745, cura sperimentale della macroglobulinemia di
Waldenstrom. Nessuno dei presenti fece pensieri di altro genere; nessuno
avrebbe analizzato il contenuto della fiala, e l’autopsia di prassi del mattino
dopo non avrebbe dato esiti diversi.
Il protocollo di trattamento per la #BW1745 sarebbe stato sospeso a
tempo indeterminato, tuttavia entro pochi mesi il capo ricercatore, incentivato
da un cospicuo versamento da parte di un colosso farmaceutico, avrebbe
presentato un altro farmaco sperimentale per soddisfare la richiesta
internazionale.
Dopo il tragico evento, il Centro Tumori Susan and Clyde Terry chiuse
un’ora per pulizie e supporto allo staff, ma c’erano molti pazienti da seguire,
molti dei quali avevano fatto un viaggio ben più lungo di Jeffrey Fagone: come
un laghetto in cui un pesce aveva temporaneamente smosso l’acqua con un salto,
le increspature cessarono e l’ospedale migliore del mondo tornò a essere il
migliore del mondo.
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