Giftaway: Il corvo e lo scorpione



Ciao a tutti!
Come forse qualcuno di voi ricorderà, un po’ di tempo fa vi abbiamo parlato de Il corvo e lo scorpione, un fantastorico che abbiamo apprezzato tantissimo (la nostra recensione qui) e abbiamo avuto il piacere di approfondire la conoscenza della bravissima scrittrice Francesca Civiletti in un’intervista.
Ebbene, oggi grazie alla preziosa collaborazione dell’autrice, abbiamo il piacere di tornare a parlarvi di questo libro proponendovi di giocare con noi.
Il fortunato vincitore riceverà una copia cartacea autografata del romanzo + un simpaticissimo gadget a sorpresa che consentirà a chi se lo aggiudica di guardare il mondo con gli occhi di Rowan!

Poche e semplici le regole per partecipare:

1-     essere follower del blog (basta cliccare sulla scritta “unisciti a questo blog” che trovate sulla colonna a destra della homepage)
2-     commentare questo post rispondendo alla domanda che Francesca Civiletti ha pensato per voi e che troverete subito sotto l’estratto che vi proponiamo in coda per fornirvi un assaggio del libro.
3-     Inserire nel commento l’indirizzo email al quale desiderate essere contattati in caso di vittoria

Non è obbligatorio ma ci farà molto piacere se vorrete condividere l’iniziativa sui vari social network o inserire il banner del giftaway sui vostri siti/blog.


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A chiusura del giftaway, sarà la stessa autrice a scegliere tra tutti i commenti quello che le è piaciuto di più decretando così il vincitore.



Avete tempo fino alle ore 24,00 del 31 marzo 2013 per scatenare la vostra fantasia.


 
Estratto


Dal capitolo SAMHAIN DI SANGUE


Ricordo le sagome indistinte degli alberi come grandi fantasmi, nella fievole luce dell’alba invernale.
Ricordo l’aria umida che scivolava sulle mie piccole braccia e che avviluppava la radura quasi a volerla soffocare.
Gelida come una brutta notizia.
Più di tutto, ricordo un silenzio talmente innatu­rale da darmi fastidio alle orecchie.
Forse fu per romperlo che mormorai al mio maestro: “Ho sognato un paese tut­to verde, pieno di fiori, con bellissime pia­nure simili a onde, colline azzurre, laghi e cascate.
Era forse l’isola di Eterna Giovinezza quella che ho sognato? Una visione del futuro che mi aspetta?”.
“Forse. Ma dovrà aspettarti ancora per molto, piccola Rowan”, rispose lui sotto la lunga barba imbiancata dagli anni: “non è ancora tempo, per te, di lascia­re questo mondo”.
Gli occhi ipnotici di Amergin attraversavano i miei, guardan­do molto più lontano. Fu la sua voce ras­sicurante a darmi la forza di avanzare in quel silenzio spettrale che serpeggiava nel bosco e che presagiva grande sven­tura per l’Isola di Mon.
L’anziano druido si fermò ai piedi di una grande quercia, dove mi fece sedere e, senza perder tempo, tracciò un restan tutto intorno nel terreno con la punta del suo bastone. Poi mi si inginocchiò di fron­te e avvolse la mia testa con le sue lun­ghe dita nodose.
“Ora ascoltami, bambina mia: morte e distruzione oggi ti passeranno davanti agli occhi; ma tu non avrai nulla da temere se rimarrai all’interno di questo sigillo di protezione, finché non sarà giunto il momento”.
Era ancora buio.
La grande, nuova fiamma di Samhain ardeva in alto sulla collina, mentre i fuochi dell’anno vecchio, spenti prima della mezzanotte, esalavano gli ultimi grigi respiri sulla riva a sud dell’isola.
Misi a fuoco la radura intorno: si stava alzando una fitta foschia che inghiottiva poco a poco tutta l’insenatura, con le case del villaggio e ogni cosa che incon­trava.
Come la paura, quella nebbia si insinua­va anche nella mia mente, facendomi dubitare di tutto, anche delle cose più certe. Mi aveva nascosto persino quel luogo tanto familiare: ai piedi di quella grande quercia, seduta ora immobile ed atterrita, un tempo avevo appreso per anni i segreti delle piante e dei minera­li, i nomi delle stelle nel cielo e degli ani­mali sulla terra; la storia di tante genti, la geografia di molti luoghi; all’ombra delle sue fronde, Amergin aveva tenuto le sue lezioni, fin da quando avevo memoria.
Proprio sotto quella quercia, la sua voce e quella delle foglie mosse dal vento mi avevano cullata narrandomi di eroi e di luoghi fantastici, di re e di guerrieri, di donne e di uomini che non temono la morte e di creature destinate a vivere in eterno. Il ricordo di quei giorni si rincorse con quello dei giochi sulla spiaggia, poi con quello dei racconti intorno al fuoco nelle notti d’estate; l’ultimo ricordo gio­ioso fu quello dei preparativi per la festa di Samhain, poche ore prima che un mi­sterioso nemico si facesse strada, insieme alla nebbia, sulla sacra Isola dei Druidi.
Un piccolo granello di sabbia, Ynys Mon, nell’acqua a poche miglia dalla costa occidentale della terra che i Romani chiamano Britannia. Poco più di un sas­solino nel freddo mare del nord, ma che in realtà era la scintilla vitale e il cuore di tutti noi appartenenti al popolo dei Celti: era il centro dell’antico sapere e delle antiche leggi, dove i più saggi tra i druidi e le sacerdotesse tramandavano da secoli la loro scienza ai loro discepoli.
Grazie a questo granello di sabbia chia­mato Ynys Mon, le origini della mia gente non sarebbero state mai dimenticate, l’amore per la terra sarebbe sempre ri­masto forte, il rispetto per gli uomini e per le leggi umane e divine sarebbe sempre rimasto acceso, come un fuoco perenne tenuto in vita da fedeli vestali.
E proprio quella notte che ora volgeva al termine, in onore delle antiche tradizioni, molti di questi fuochi erano stati accesi: i fuochi sacri che avrebbero fatto da gui­da alle anime dei defunti; agli spiriti che, solamente nei giorni di Samhain, posso­no tornare in questo mondo per far visita ai propri cari.

Quella notte, però, il soffio sacro dell’Aldilà atteso da noi tutti si era fatto strada nel villaggio insieme a un ben più inaspettato alito di morte. Lo sentivo nel petto e sulla pelle.
Lo vedevo avanzare su per la riva attra­verso l’acqua gelida del mare ancora buio, strisciare sulla sabbia, lasciare le sue impronte silenziose, dirigersi verso il villaggio, varcare le soglie ornate di fo­glie di sorbo, insinuarsi nelle case e…
Ma gli acuti occhi grigi di Amergin mi richiamarono all’ordine. Una grande, benevola energia fluì dalle sue mani alla mia testa, e poi giù attraverso il viso, dal collo fino alla gola. Il calore cresceva permeando tutto il mio corpo.
Irradian­dolo, lo rasserenava e lo fortificava.
“Ricordi, Rowan, di quando imparasti a volare, a Ynys Seiriol, un pomeriggio che la marea si era ritirata e potevamo con­fonderci con i gabbiani sulla sabbia?”.
Una vertigine mi percorse la schiena, “questa volta sarai uno degli uccelli che guidano l’aurora nei sentieri tra i boschi. Perciò chiudi gli occhi e preparati a spic­care il volo”.
Leggendo nel mio sguardo mille inter­rogativi, capendo quanto fossi restia a staccarmi dalla sua immagine, Amergin mi sorrise e mi rassicurò: “non temere, Rowan, io sarò sempre con te”.
“Allora non mi lasci qui da sola, vero?”.
“Non è perché non la vedi, che una cosa non c’è”.
“Quando saprò che sarà giunto il mo­mento?”.
“Non tutto dipende da noi”.
Sospirai. Non potevo fare altro che ascoltarlo e arrendermi al mio destino.
Quell’uomo, dallo sguardo vasto come il mondo, dal cuore limpido come la più chiara delle sorgenti, non avrebbe ag­giunto altro. Lo sapevo come so che un triangolo ha tre lati o che il fulmine arriva sempre prima del tuono: perciò mi arresi subito lasciando che le palpebre mi si chiudessero e che fosse la voce profonda del mio maestro a guidarmi, rimbomban­domi nell’anima.
“Controlla il respiro, Rowan: l’espirazione e l’inspirazione. Rallentale, fai in modo che siano regolari e profonde.
Concentrati sul tuo respiro: vèdilo! Vedi l’aria, sottoforma di tante piccole bolle, entrare nelle tue narici e osservala uscire: una, due, tre volte… cento volte. Diven­ta il tuo respiro: leggero, limpido, pene­trante e sfuggente. Sii il tuo respiro.
Non senti le membra del tuo corpo per­ché ne stai uscendo: il respiro è leggero; è aria e l’aria sale, si muove libera… va…”.
Nella totale concentrazione in cui ero assorta, non percepivo né rumori né im­magini.
Ero leggera. Salivo.
L’aria mi con­duceva, mi attraeva… ora ero aria…
An­davo sempre più in alto: adesso vedevo di nuovo, ma in modo diverso.
E lassù, dove la nebbia andava diradan­dosi, nuovi suoni mi giungevano sempre più distintamente, ma non li udivo con le mie orecchie.
Quasi ci passavo attraverso…
Tutti i sensi adesso tornavano più acuiti, più intuitivi.
Non erano più quelli di una ragazzina, bensì di un predatore in grado di volare, di scorgere con occhi attenti anche i particolari più lontani e di sapere cosa stava accadendo più in basso, sotto le sue ali corvine e i suoi neri artigli.


***


L’Isola era in fiamme. La spiaggia bruciava: donne e bambini di Ynys Mon cadevano sotto i colpi terribili di soldati stranieri che squarciavano con spade massicce, infil­zavano con lance affusolate.
Quelli che sembravano essere i più spie­tati avevano un grande elmo dorato crestato di rosso e avanzavano su spa­ventosi cavalli da guerra corazzati.
Calpestavano, distruggevano, davano alle fiamme chiunque e qualsiasi cosa fosse sulla loro strada; alcuni dei nostri non facevano in tempo a scappare che venivano arsi con le loro stesse torce.
Druidi e sacerdotesse si erano raduna­ti sulla spiaggia e levavano le mani al cielo: noncuranti delle spade dei legio­nari lanciavano invocazioni e maledizioni e, agitando le fiaccole, si contorcevano.
Alcuni soldati romani, terrorizzati davanti a quello spettacolo inaspettato, rimane­vano immobilizzati come se avessero le gambe legate e si esponevano alla fu­ria della difesa disperata degli abitanti dell’isola. Ma la forza dei saggi non era sufficiente per respingere tutti quei legio­nari.
Troppi! Troppo forti!
Mi sembrò, nella nebbia e al divampare delle fiamme, che oltre agli isolani e alle legioni, altre presenze combattessero si­lenziose, poiché il numero di tutte le ani­me sul campo di battaglia mi sembrava aumentare anziché affievolirsi, nonostante già molti cadaveri riversassero a terra massacrati.
Ma ecco che all’improvviso, nella mi­schia, una figura spiccò sulle altre apren­dosi un varco tra i soldati romani falcian­doli come sterpaglie sul suo cammino. Era una donna!
Montava un cavallo colossale, nero come la notte e dilaniava gli avversari con una lancia gigantesca; gli stendardi romani cade­vano decapitati al suo passaggio, ora quello del Capricorno, ora quello del Cinghiale.
Quella furia attaccava come un lupo af­famato; ed ero così rapita dalla visione che mi ero dimenticata… di me!
Mi diressi alla radura battendo le mie nuove ali. Amergin non c’era più!
Non so dire quanto tempo fosse trascor­so da quando avevo abbandonato gli occhi del mio maestro per trasferirmi in quelli di un grande corvo che sorvolava l’isola.
Vidi con terrore che anche l’entro­terra bruciava.
Finalmente trovai il boschetto di querce, ed ecco là la mia quercia, e un corpici­no abbandonato tra le radici: il mio!
I legionari uccidevano tutt’intorno, ma non badavano a quella bambina avvolta in un mantello scuro, incappucciata e immobile come addormentata.
Pensavano che fossi morta o, semplice­mente, non mi vedevano?
Sul terreno intorno al mio corpo riconobbi il restan tracciato da Amergin: un qua­drato rovesciato con incisa, ad ogni an­golo, una freccia rivolta verso l’esterno; quel simbolo di protezione mi rendeva davvero invisibile al pericolo?
Ma ecco impennarsi, colpito da una freccia infuo­cata, il cavallo di un legionario. Eccolo barcollare avvolto dalle fiamme, proprio in prossimità del mio nascondiglio!
Dovevo tornare in me e reagire, prima che fosse troppo tardi, prima che il mio corpo venisse colpito o addirittura schiacciato sotto quel bestione.
Dovevo muovermi!
Di nuovo nei panni di Rowan la bambina, mi gettai giù per la pendenza della radura evitando per un soffio i garretti dell’ani­male impazzito, e rotolai, rotolai sempre più forte. Vidi la morte tanto prossima quanto avevo potuto vedere da vicino il cadavere del legionario che pende­va staffato e bruciato sul fianco del suo destriero.
Mentre ruzzolavo zolle di terra e pietre mi colpirono la faccia, polvere pungente mi entrò negli occhi, rami im­pervi mi graffiarono il volto e sopportai colpi ovunque su costole, gomiti e gi­nocchia, e poi vidi gli occhi infuocati di un enorme cane nero… le immagini si facevano sempre più veloci, sempre più confuse.
Non avevo tempo per pensare e neanche per avere paura…
Poi la mia corsa finalmente si arrestò: qualcosa mi afferrò, mi sollevò da terra e mi ritrovai buttata a pancia in giù tra il garrese di un cavallo lanciato al galoppo e un serpente con due piccoli occhi rossi.

E adesso la domanda per voi.


Quella di una belva feroce che assomiglia a un grosso cane, nero come la notte, gli occhi iniettati di sangue e le fauci pronte a dilaniare, potrebbe essere una delle tante forme che il Male può assumere.  
Ma ognuno di noi ha una propria rappresentazione del Male... un serpente velenoso o dalle spire letali? Un gigantesco ragno che attende di divorarti nella sua tela? Un pagliaccio dai denti aguzzi pronto a ghermirti nel buio?Ora dimmi che cos'è il Male per te, fammi tremare di paura e vinci!






Commenti

  1. ho condiviso su fb francesca ghiribelli
    https://www.facebook.com/fraghi88
    e sn follower del blog come fraghi88
    mail fraghi88@alice.it

    diciamo che rispondo alla domanda dell'autrice così....

    anche se sappiamo che la figura del cane nero è un segno di cattivo presagio, di una fine vicina, la morte è prossima, ma anche messaggero del Demonio o di cattivi presagi dall'oltretomba.....lo ritroviamo in molti romanzi famosi come mito o leggenda narrata, ma soprattutto ne 'Il mastino di Baskerville'...


    questa è la mia risposta

    'Il mio corpo si capovolse in interminabili e infernali gironi, mentre la terra mi abbandonava dalla vita; quei profondi occhi rossi mi stavano fissando senza battere ciglio. Il rabbioso animale mi prese per i capelli, credevo volesse trascinarmi via con sè, ma mi accorsi con estremo orrore che la sua saliva si stava macchiando di rosso....sangue. Del mio sangue! Non dette inizio alla sua famelica lotta con una mano o un qualsiasi altro arto.Comunque sia una terribile fine, lo so. Ma iniziò a scavare con le sue fauci nella mia testa. Chiusi gli occhi, mentre il sapore della morte mi abbracciava.

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  2. Mi era sfuggito!
    Domani condivido l'evento sul blog!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie!
      Se il libro ti incuriosisce puoi partecipare anche tu.

      Elimina
  3. Seguo il blog come Federico Sabbatini
    Ho condiviso qui: https://twitter.com/_Sabba92/status/313993967589007360
    Email: sabba_92_@hotmail.it

    Il cane nero, nato dal folklore inglese, è una creatura nottruna portatrice di cattivi presagi. Sono considerati i messaggeri i messaggeri dell'oltretomba e i loro occhi fiammeggianti sono il simbolo della loro malvagità. Le superstizioni riguardanti queste creature sono nate dalle ideologie medievali, che riconoscevano in determinati animali (principalmente gatti e cani neri) delle rappresentazioni del demonio (spesso affiancate alle streghe).

    Ecco come continuerei la storia (sono più di 9 righe e non fa tremare di paura... però provo lo stesso ^^)
    Strisciai all'indietro, tentando di mettere più distanza possibile tra me e il serpente, ma ben presto andai addosso ad un nemico ben più feroce. Il cane nero mi colpì con una possente zampa dotata di artigli immensi, simili a un gruppo di pugnali. Mi ferì a una spalla, ma non mi diedi per vinta. Gridando di dolore fuggii senza una meta precisa, con l'unico scopo di salvarmi la vita. I ruggiti della bestia mi seguivano a poca distanza: non mi aveva ancora raggiunta solo perché stava giocando con me, con la mia vita.
    Inciampai sul cadavere di un combattente e caddi a terra. L'essere demoniaco ne approfittò per saltarmi addosso, le unghie delle zampe anteriori che si conficcavano nel terreno poco sopra le mie spalle e le sue fauci che si chiudevano sul mio collo. Raccolsi le mie ultime forze e, piangendo e pregando, sferrai il mio attacco: con la spada che giaceva vicino al corpo del soldato e che ero riucita ad impugnare, colpii l'enorme bestia infernale, mirando prima alle zampe posteriori e poi alla gola.
    A nulla servirono i miei sforzi: non riuscii neppure a scalfirlo. Abbandonai l'arma e ricaddi a terra con la schiena sul terreno ormai zuppo del sangue del guerriero caduto, pregando le oscure divinità della vendetta di prendere la mia anima e di renderla uno strumento contro quel mastino innaturale. Una nebbia rossastra mi avvolse e un immenso dolore riempì ogni mia singola cellula.
    Da quel momento la mia vita cambiò e ancora oggi fluttuo sui campi di battaglia per frenare la furia mortale di quei mostri neri così affamati di carne umana. Forse un giorno mi libererò. Forse un giorno verrò salvata. Ma ora non posso fare altro che aspettare e soffrire.

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  4. Salve ^^
    Seguo il blog, dovrebbe apparire il nome Heroine, in caso contrario, Ilenia T.D.Lemon.
    Ho visto questo evento su Anobii e credo di essere entrata nel periodo delle 'regole semplificate', in quanto non capisco perché gli altri abbiano scritto anche una storia ^^'

    La mia risposta alla domanda è:
    Il male, invincibile, incredibile, inquieto.
    Come dare una forma al male? Non è possibile, è una sensazione che ti prende; un'immenso spettro d'emozioni che riesce ad avvolgerti come se fosse una nuvola nera. Una nuvola di polveri, disagio, dolori.
    Una nuvola d'insetti che t'insegue, ti avvolge e ti trascina via con sé; come se fossi una briciola in quel mondo immenso che il male sa creare.
    Vivi tra le punture di tutti quei pungiglioni che ti assalgono, ti sfiorano, ti feriscono. Ti rincorrono e tu non puoi sfuggire. Ti perseguitano, ma tu non puoi scappare.
    Se il male avesse una forma, sarebbe una nube informe di esseri pungenti e maligni che ti uccidono lentamente, iniettando veleno un poco alla volta. Il male è senza una forma precisa e riesce a confonderti, condannandoti a una morte sadica e dolorosa, che ti porta al delirio, poi alla fine dei tempi e ti lascia accasciato lì, a terra; mentre attorno a te il nulla invade ogni cosa.

    Il mio indirizzo è:
    caldaremail@gmail.com

    RispondiElimina
  5. Seguo il blog come Alessia Grafner, (o come Joanne)
    e-mail: a.grafner@gmail.com

    IL buio ti avvolge, i tuoi occhi ciechi e impotenti si affidano all'udito per "guardare", ma la calma più totale ti circonda, eppure lo percepisci, è lì, accanto a te, celato dall'ombra. Calmati, respira piano, e resta in te stesso qualsiasi cosa accada.
    Muovi qualche passo incerto ma prima che te ne accorga vi è di nuovo la luce, puoi tornare ad osservare il mondo, sollevato ma titubante, non vi è nulla di strano attorno, tutto normale, eppure... no non te lo sei inventato, ti sembra di sentirlo, c'è qualcosa che si muove, che striscia, e sibila al tuo orecchio. Come credere a ciò che i tuoi sensi rifiutano e che solo la tua testa ammette come reale?
    Attento a te stesso, a tuoi pensieri, attento a non impazzire mentre cerchi la risposta perché il Male è subdolo, sa nascondersi, confonderti e restare nascosto in attesa del momento giusto per attaccare. Quando sarà? forse ora, forse tra un mese, un anno o forse mai. In qualsiasi momento, per quanto tu ci provi non sarai mai preparato, perché il problema non è conoscerne il giorno ma il mezzo.
    Il male è un mutaforma, un essere viscido, che si nutre delle tue debolezze delle tue paure, le usa per attaccarti quando sei più vulnerabile.
    E' per questo che non potrai mai abbassare la guardia, perché appena ti volti, appena cedi sei certo che lui sarà su di te nello stesso istante in cui ti sentirai perduto.
    Se l'hai già incontrato saprai di cosa parlo, ma se invece non l'hai ancora incontrato attento perché il momento potrebbe essere vicino, chissà, magari si è già insinuato nella tua mente senza che tu lo sappia e da dentro scava e corrode per svuotarti.
    Resta saldo col pensiero a ciò che ami, è l'unica speranza che ti resta.

    RispondiElimina

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