Il Flauto di Pan non
può che accogliere con particolare entusiasmo uno scrittore che parla di dèi.
Benvenutissimo Luca! Autore affermato e apprezzato, non hai bisogno di
presentazioni, ma se dovessi descriverti in poche parole?
Basso. È la prima parola che viene in mente a tutti. Le
successive di solito sono rumoroso, iperattivo, impiccione, disordinato, mal
rasato, bugiardo, maniaco-depressivo, hippie, sociopatico, affetto da Sindrome
di Peter Pan con abitudini discutibili quali guardare telefilm a pacchi,
giocare di ruolo come un tredicenne, ascoltare metal e cantarlo malissimo a
squarciagola.
Quando e perché hai
deciso che da grande avresti fatto lo scrittore?
Mai deciso, giuro! È stato un incidente. Nel 2003 facevo il
giornalista turistico e mi hanno licenziato da un giorno all’altro. C’era una
storia che mi girava per la testa da mesi e che non avevo né intenzione né
voglia di scrivere, ma a forza di lamentele e piagnistei stavo tirando scema la
mia ragazza di allora (che oggi è mia moglie): lei mi ha convinto a mettere per
iscritto quella storia, e sospetto ancora oggi che fosse per pura autodifesa.
Se non altro me ne sono stato relativamente buono per un po’ di settimane, al
termine delle quali avevo prodotto il mio primo romanzo, Pentar. Ho impiegato un paio d’anni per trovare un editore, e nel
frattempo ho scritto dell’altro, soprattutto perché… be’, perché continuavo a
non avere molto altro da fare. Poi finalmente è venuto il mio lavoro di
traduttore e con quello contatti utili per accedere ad altre case editrici,
finché nel 2011 sono approdato a Salani. Raccontata così pare una canonica
“serie di (s)fortunati eventi”; dalla prospettiva da cui la vedo io continua a
sembrare un fottuto miracolo.
Godbreaker. Com’è nata l’idea?
Godbreaker non ha
una genesi singola, anzi forse è il più “nebuloso” tra i miei romanzi se si
guarda alle idee di partenza. Ci sono dentro letture sulla cultura psichedelica
degli Anni Settanta, riflessioni sul folklore dell’Europa Occidentale, il gusto
di recuperare le atmosfere degli urban fantasy delle origini (quelli di
trent’anni fa, per intenderci), la mia vecchia passione per le leggende
metropolitane e discorsi durati anni sulla natura degli dèi con un amico
appassionato come me di religioni. Credo che il punto intorno al quale si sono
congregati i vari pensieri sia stato la voglia di scrivere una storia che
parlasse di una coppia di personaggi che non fossero due (presenti o futuri)
innamorati, e che a spingerli avessero motivazioni non troppo “battute” nella
letteratura di genere. Per questo ho scelto un padre e un figlio e tra loro ho
messo una spinta diversa dalla volontà di aiutare, proteggere o salvare
qualcuno/qualcosa, anzi proprio la volontà opposta: quella di distruggere.
Liàthan, Siaghal,
Naire, sono tre dèi incarnati decisamente sopra le righe. Ce li presenti?
Tentando di non fare troppi spoiler, posso dire che sono tre
brutti ceffi nati in epoche diverse ma oggi tutti e tre millenari. Naire è
quello che nella vecchia Europa avrebbero chiamato uno Spirito Annegatore, e
dei tre è quello che ha più testa sulle spalle (e stiamo parlando di un mostro
che per vocazione affoga la gente, per cui potete immaginarvi gli altri due…)
Siaghal è il figlio bastardo di un orco cannibale, e si sa che le mele non
cadono lontano dall’albero. Liàthan è il più vecchio dei tre dal punto di vista
anagrafico ma il più giovane e il più irresponsabile da quello psicologico. Nei
suoi quaranta secoli di vita ha fatto tutto quel che si può fare sulla Terra:
ha combattuto ogni guerra possibile, ha creato e distrutto imperi, ha amato
migliaia di donne e seminato figli praticamente ovunque, e oggi la sua più
grande nemica è l’immensa noia dei millenni… fino all’inizio del romanzo.
Questa è una domanda non facile. Da un punto di vista
morale, Edwin ha ragione e Liàthan torto marcio. Eppure è Edwin quello che
arriva a usare mezzi moralmente inaccettabili per portare avanti la sua pur
giusta causa, mentre Liàthan combatte solo per difendere se stesso e la propria
cocciutaggine, ma nel farlo finisce per compiere atti di giustizia e persino di
“bontà”. Liàthan è un bastardo e un irresponsabile (e molte altre cose, tutte
poco accettabili nella buona società) ma è anche simpatico, è il genere di
persona con cui vorresti andare a ubriacarti in vacanza; Edwin è molto più
affidabile, ma è anche gelido, macchinoso e – diciamolo – francamente insopportabile.
Sul piano scrittorio, Liàthan è stato molto più facile da gestire di suo
figlio: non ho mai avuto dubbi su cosa avrebbe detto o fatto in un dato momento
della storia. Di contro Edwin mi ha costretto a pensare molto di più, a
immedesimarmi con fatica nel suo punto di vista, una pagina dopo l’altra. Dopo
avermi sentito confessare questo, di certo c’è chi concluderebbe che io
somiglio di più a Liàthan… E a questo punto io mi chiamo fuori! ;-)
Siaghal by Fabio Babich |
Gli dèi sono tra noi
solo che in questa epoca non ce ne accorgiamo. Perché?
Fondamentalmente per due ragioni, una interna e una esterna
alla storia che ho scritto. La prima è che gli dèi di Godbreaker sono talmente simili a noi che si mimetizzano senza
problemi. Alcuni – anche se non tutti – erano uomini e donne mortali prima
dell’apoteosi, e la loro nuova natura non cambia affatto la loro personalità
umana, anzi se possibile la esacerba. Non sono “dèi del cielo” ma dèi della
Terra: i loro interessi sono tutti qui, nella carne e nel sangue, perciò il
loro posto è tra di noi, mescolati alla folla. La seconda ragione, quella
esterna al mio romanzo, è che il Divino in Terra – salvo casi ben rari – lo
trova solo chi lo cerca attentamente. Ma questa è un’altra storia.
“Non c’è niente come
la rete per diffondere leggende
metropolitane. Ma il punto è proprio questo:
sono troppe. L’eccesso desensibilizza. L’idea che possa essere tutto vero o
tutto falso è un vaccino potente contro lo stupore. Potentissimo. E la gente se
lo inietta tutti i giorni, col cavo del modem dritto in vena” (Godbreaker pag. 64). Sono parole dell’uomo
in verde, parole che suonano quanto mai attuali. Ti va di commentare?
Naire by Fabio Babich |
Onestamente non saprei cosa aggiungere. Internet per noi
oggi è quello che l’acqua è per un pesce. Ci stai dentro, non puoi fare senza,
ma a stento ti accorgi che c’è (tranne quando smette di esserci, è ovvio). Come
mezzo di diffusione delle informazioni la Rete ha reso possibile l’impossibile,
ha quotidianizzato il miracolo. Eppure io resto della ferma convinzione che al
genere di informazione che si trova on line si possa perfettamente applicare
una ben nota legge della fisica: il Principio di Indeterminazione di
Heisenberg.
La storia si muove
tra Londra, Amsterdam e Milano. Quale il tuo legame con queste città?
C’è qualcosa nel tuo
immaginario che le accomuna?
Sono città che mi affascinano tremendamente, alla maniera in
cui può affascinare qualcosa che conosci sia dall’esterno che dall’interno ma
senza esserci mai “entrato per davvero”. Ho una buona esperienza diretta di
tutte e tre, ci sono stato molte volte (nel caso di Milano, un’infinità di
volte) ma, con l’eccezione di un mese passato ad Amsterdam, non ci ho mai
vissuto stabilmente. Non si somigliano tra loro, neppure da lontano, eppure
tutte e tre hanno quell’aria, quella particolare “vibranza” che nella mia mente
si associa alla magia urbana, alla leggenda metropolitana e in generale al
fantastico postmoderno.
Dai vampiri e i
licantropi agli angeli, fino ad arrivare ai più recenti zombie, le
pubblicazioni urban fantasy sembrano sempre seguire una moda del momento. Godbreaker, da questo punto di vista,
rompe gli schemi. I tuoi dèi non
seguono alcuna moda, anzi potrebbero inaugurarne una nuova. Il tuo pensiero in
merito?
Non l’ho certo inventato io l’urban fantasy con gli dèi!
Tanto per dire, lo faceva già Charles de Lint negli anni Ottanta. Ma Charles de
Lint in Italia non lo conosce nessuno, anche se oltreoceano è considerato – a
ragione – un grande nonché un vero classico (e qui si potrebbe aprire una
parentesi sul fatto che quello italiano è un mercato profondamente ignorante e
arretrato, che ogni tanto scopre qualcosa che già tutti conoscono e crede di
aver trovato Atlantide). Si potrebbero fare molti altri esempi, e se volete
qualcosa di noto anche in Italia ci sono American
Gods e I ragazzi di Anansi di
Gaiman e le saghe su Percy Jackson e Carter Kane di Rick Riordan, giusto per
citare i primi che mi vengono in mente.
Nel romanzo sono
disseminati alcuni omaggi a maestri quali Gaiman e Lovecraft, non trascurando
il più classico Virgilio. Cosa rappresentano per te questi autori e in che modo
hanno influenzato la tua scrittura?
Lovecraft non è un’influenza: è una fissa. Lo infilo
dappertutto, persino quando non me ne accorgo. L’ho incontrato ai tempi del
liceo e non me ne sono più liberato. È una specie di sottofondo sempre acceso
del mio immaginario. Ho pure uno Cthulhu di peluche sul comodino. Se mi
chiedete “Ti piace Lovecraft?” la mia risposta è “Chiamate un esorcista, per
favore”… Di contro Gaiman a volte mi piace, altre meno, ma è senza dubbio uno degli
autori di fantasy postmoderno che incontra meglio i miei gusti, perché sa
essere – quando è in buona – sia epico che ironico che lirico. E su due piedi
non mi viene in mente un altro autore che riesca a coniugare tutti e tre questi
elementi.
Ispirazione ed
esercizio, quanto e in che misura sono importanti per la scrittura di un buon
romanzo? E quali caratteristiche, secondo te, deve possedere un buon romanzo
per definirsi veramente tale?
Il buon romanzo non esiste. Punto.
“Il buon romanzo è quello che sa essere classico ma anche
originale, ipnotico ma anche ritmato, lungo ma anche corto, rosso ma anche
verde”.
“Il buon romanzo è quello che ha ampio successo di
pubblico”.
“Il buon romanzo è quello che clona Twilight”.
“Il buon romanzo è quello che non clona Twilight”.
“Il buon romanzo è
quello che segue le regole della corretta scrittura, che rispetta lo Show Don’t
Tell, che non incasina i POV, che usa la texture”.
Tutte stronzate.
Esiste solo il romanzo che ti ha preso o non ti ha preso,
che ti rimane nella memoria o se ne va via, che ti dice qualcosa o non ti dice
una ceppa. Il resto sono chiacchiere da bar (o da blog).
Poi c’è chi ci arriva con l’ispirazione, chi con
l’esercizio, chi coi corsi di scrittura, chi coi manuali e chi ascoltando
l’omino verde che gli parla dal cruscotto della sua auto e che solo lui può
vedere. L’unica cosa che verrà giudicata – perché verrà giudicata, non c’è via
di fuga da questo – è il risultato finale.
Che rapporto hai con
la lettura? A parte Godbreaker, che
merita assolutamente di essere letto, ci consigli un libro per l’estate?
Se in un incubo seguito a una brutta indigestione un boia
incappucciato mi dicesse “Scegli: vuoi che ti cavi gli occhi così non leggerai
mai più, o che ti mozzi le mani così non scriverai mai più?” io metterei le
mani sul ceppo senza pensarci un attimo.
Come letture per quest’estate, senz’altro gli strepitosi La chimera di Praga e La città di sabbia di Laini Taylor. O,
per restare in italico suolo, L’età
sottile di Francesco Dimitri.
Progetti e sogni per
il futuro?
Progetti: terminare il romanzo che sto scrivendo – e che non
è un fantasy, o perlomeno non nell’accezione canonica del termine – e poi
scavare fuori dal lavoro “normale” il tempo per scrivere l’ipotetico seguito di
Godbreaker, che in effetti non sarà
un seguito ma piuttosto uno spin off.
Sogni… qualche giorno di vacanza per dormire un po’, probabilmente!
E per concludere…
come saluterebbe Liàhan i nostri lettori?
“Questo è quel che avevo da dire e l’ho detto. Vi ho dedicato
gratis un po’ del mio prezioso tempo e vi lascio pure andar via sulle vostre
gambe, che non è poco. Perciò coccolatevi la vostra intervista e toglietevi di
torno: contenti voi, ma soprattutto contento io”. ;-P
E per saperne di più...
Leggi la nostra recensione di Godbreaker
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Visita il blog di Fabio Babich (autore delle bellissime illustrazioni contenute nel post)
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